Sono Luca e mi piace l’odore del caffè al mattino, mi piace mettere la sveglia cinque minuti prima del necessario per poterla ritardare, girarmi dall’altra parte e terminare il sogno brutalmente interrotto. La sera con gli amici mi piace mangiare e bere fino al vomito e tornare a casa tardi accompagnato dall’odore acre di alcool e tabacco. Mi piace andare in palestra e pavoneggiarmi della muscolatura scolpita, indosso canotte strette che lasciano intravedere la tartaruga e i pettorali, inizio sempre con venti minuti di corsa veloce per imperlarmi di sudore. Non sono mai stato una cima a scuola, ma con le ragazze… con le ragazze è tutta un’altra cosa.
Sono alto, e la categoria “ragazze-che-svengono-per-una-montagna-di-muscoli-sopra-il-metro-e-novanta” di La Spezia e provincia credo di averla conosciuta tutta.
Sembra surreale ma è così: molte ragazze di fronte a un esemplare umano, di sesso maschile, alto abbastanza da far alzare loro lo sguardo di sessanta gradi cedono dopo pochi convenevoli.
Come volto non sono un granché: ho un neo al lato del sopracciglio destro che la tempia, gonfia dalla tensione muscolare, mette in risalto seguendo l’intermittenza della masticazione compulsiva; ho due piccoli occhi marroni, il sinistro sembra leggermente più chiuso; e la bocca è un piccolo solco, sono totalmente privo della carnosità delle labbra. Ciononostante la popolazione femminile di Santo Stefano di Magra mi conosce molto bene, così come una gran parte di quella di La Spezia, e sono molto conosciute anche le tre macchioline rosse che si staccano dall’olivastro uniforme dei miei glutei. Queste macchioline in gioventù erano motivo di imbarazzo. Ogni volta che andavo dal pediatra per i vaccini l’infermiera, una giovane grassottella di nome Giorgia, nell’atto di disinfettare la parte interessata iniziava a recitare il solito copione «ma guarda queste tre macchioline, non fosse inverno penserei che qualche zanzarina è stata molto attratta da questo bel culetto tondo» .
Ma dall’adolescenza in poi queste tre macchiette rosse sono diventate il mio marchio di fabbrica, e cinque anni dopo essermi sentito ripetere per l’ultima volta la litania del culetto tondo Giorgia ha riempito la pagina del 23 marzo del diario.
Nome:Giorgia
Cognome: ?????
Soprannome: Zanzarina
Colore Capelli: mori ricci
Segni Particolari: urla forte.
Specialità: gioca al dottore, è molto attratta dal mio sedere
Note:se mai avrò un figlio non mandarlo da questa pazza arrapata
Non sono un rimorchiatore seriale, ma tengo nota delle mie avventure in un diario. In principio scrivevo: Nome-Cognome-Colore dei capelli-Segni particolari-Specialità-Note, tutto in una pagina. Una pagina per ogni ragazza; ma avendo raggiunto la metà del diario in un solo anno ho deciso di dedicare solo metà pagina a ogni ragazza.
So che alcuni potrebbero pensare che sia una cosa squallida, ma non lo faccio per la gloria, mi piace tenere memoria delle mie avventure e ricordarmi i nomi che ho incontrato.
La prima ragazza che si è accorta del diario me la ricordo bene senza dover ricercare la pagina a lei dedicata: Maria Dorini, detta “Maria la tettona”, posso lasciarvi immaginare il perché… profumava di rose e di pulito e aveva un modo di ridere unico, quando riprendeva il fiato lo faceva accompagnata da un sibilo acutissimo dimenandosi tutta. Tra amici in estate facevamo a gara a farla ridere a crepapelle, e tra i vestitini scollati e la prosperosità di Maria tutto quel dimenarsi era un belvedere. Ricordo che si risvegliò dopo una notte insieme, proprio mentre io ero in bagno e avevo lasciato il diario aperto alla sua pagina in fase di compilazione; probabilmente deve essersela presa per la descrizione: “è meno maiala di quel che sembra”. Il risultato è il segno di quattro incisivi sul polpaccio destro, che ancora mi porto dietro.
Adesso nella metà pagina rimasta dopo lo strappo si può leggere:
Nome:Maria
Cognome: Dorini
Soprannome: la tet(….)
Colore Capelli: castan(…..)
Segni particolari: gigantesch(…)
Voglia di fragola dietro il gi(…)
Specialità: è molto brava a(…..)
Note:è meno maiala di quel ch(…..)
Attenzione è mordace!
La poveretta andò a raccontare la storia del diario alle amiche, pensando di farmi uno sgarbo mettendo in luce quanto fosse disumano e privo di ogni sentimento il mio mercificare notti di piacere con pagine di diario e votazioni. Non mancò di raccontare ogni particolare di quell’incontro, cosa che incuriosì non poco le giovani auditrici. Così, grazie a Maria ho riempito molte altre pagine del mio diario con Chiara la rossa, Giulia bocca fina, Alessia l’innocente, Giulia la cattiva, Federica culo piatto, Angela, Alessandra, Dora e molte altre.
Non c’è spazio per l’amore, è una complicazione che non voglio nella mia vita, non voglio cedere al sentimentalismo. Come unica unione tra me e una donna c’è e ci sarà solamente quella fisica. Questa è la mia linea guida, questo è il mio credo e finora ho trovato ragazze e donne concordanti.
Ovviamente a qualche ragazza un po’ restia a cedere alle mie avances ho dovuto fare qualche falsa promessa: ho regalato sogni felici, matrimoni promessi, vacanze, figli ma sempre e comunque a fin di bene, non conosco ragazza che non sia andata via dal mio letto felice e appagata.
Così sono cresciuto riempiendo le mie giornate con le pagine del mio diario, segnando nomi, profumi, colore di capelli, pregi e difetti di ogni ragazza che ho incontrato.
Un solo grande amore ho avuto nella mia vita: mia nonna.
La nonna era quello che mia madre non è mai stata, era madre e padre racchiusi in una sola paffuta figura, era cannelloni agli spinaci, un distributore di cibo e paghette, che dispensava con tanto amore.
La sua casa profumava di cannella mista a sapone di Marsiglia; in estate, invece, prendeva le tonalità più fresche della lavanda, mista sempre al sapone di Marsiglia. Già, mia nonna era una della vecchia guardia e ha passato la vita a guardare male le moderne lavatrici continuando a lavare a mano fino al suo ultimo giorno, quando quel cretino sulla Panda bianca l’ha atterrata uccidendomela in un colpo solo..
Francesco Pardi si chiama quel cretino. In paese si mormora che fin da piccolo sia sempre stato un cretinotto, uno di quei ragazzini che aveva il sostegno a scuola, uno non del tutto normale. Quando successe già venti anni fa ormai, lavorava come fattorino alle poste e portava le lettere alla frazione di Ponzano Superiore, tra gli abitanti detto Ponzano a Monte. Quel giorno era in malattia, era uscito per prendere l’aspirina in macchina quel cretino, indossava una tuta bianca e usò la macchina per fare 400 metri quel cretino, da via Carducci dove quel cretino abita fino alla Farmacia Salvan quel cretino, e mentre ascoltava a manetta “Personal Jesus” dei Depeche Mode intento a raccogliere da terra le 200 lire di resto che aveva ricevuto dalla farmacista ha investito mia nonna, la testa le ha aperto… in due… quel cretino… ha lasciato l’auto accesa, in folle, con la terrificante canzone che si ripeteva a loop nel mangianastri
your own personal Jesus
…………………………………..
reach out and touch faith
personal
Jesus
Faith……
Quel cretino in bianco se n’è andato, ha lasciato la metà di mia nonna agonizzante per terra e l’altra metà morta sul marciapiede. E’ scappato, urlando è scappato, gridando «O’cciso un cane! O’cciso un cane!».
Gridando se n’è scappato, quel cane. La fortuna volle che io lo trovassi prima della polizia. Si stava facendo un bagno giù al fiume, era immerso con quella sua maledettissima tuta bianca, come se realmente avesse ucciso solo un cane. Non mi vedeva, ma io sì, personal jesus; l’intenso profumo degli agropireti mi stava inebriandoJesus… era proprio a ridosso dell’alto argine e io lo guardavo dall’alto con l’odio che velocemente mi offuscava la vista, e quell’odore, quell’aspro odore degli agropireti, reach out and touch faith.
Non si accorse di nulla, credo che sentì solo il forte dolore alla testa. Una pioggia di pietre cadde su di lui, personal,la prima lo colpì alla testa, e non ebbe nemmeno il tempo di voltarsi che già la seconda al fianco, la terza sul braccio, la quarta sulla schiena e così via, in una tempesta di ciottoli sempre più fitta. Sfortunatamente non l’ammazzai: lo lasciai agonizzante, sdraiato lì dove l’acqua purtroppo non era abbastanza fonda da farlo affogare. Fui interrotto dal rumore di un’auto che stava avvicinandosi. Scappai, come aveva fatto il cretino, e lo abbandonai sanguinante, mentre la mia vista era sempre annebbiata da quell’odio e le mie narici piene di quell’odore.
Non partecipai al funerale; io non credo in un Dio giusto, non c’è giustizia nella mia vita, così come non possono esserci un Dio o una vita dopo la morte. Tutto finisce come tutto inizia. Io rifiuto Dio, tutto nella mia vita parla e afferma l’inesistenza di un’entità superiore che tutto sa e tutto muove. E se esisti io non ti voglio, io non ti cerco, io non ti credo, io ti odio!
Di mio nonno so veramente poco: è morto in guerra, sul fronte Orientale, la scheggia di una bomba lo ha trapassato da parte a parte nella gamba, infezione, cancrena e morte dopo una settimana di dolori strazianti. Gli altri miei nonno e nonna, quelli da parte di mia madre, non so chi siano, non li ho mai conosciuti e non so nemmeno se siano sempre vivi. Sinceramente non mi interessa.
Non ho una madre; o meglio, se per madre si intende la calda caverna che mi ha imprigionato per nove mesi, allora sì, di madre ne ho avuta una.
Mia “madre” non ha un profumo, non ha odore, mia “madre” è una sedia bianca, di plastica, quelle che trovi al discount sottoprezzo, che perdono l’odore di nuovo appena le metti in giardino; una sedia stagionale che dopo due mesi è da buttare.
Dopo la mia nascita è caduta in depressione e dopo essere stata cacciata da casa da mio padre so che ha cominciato a vendere quel poco che era rimasto della sua giovinezza sull’Aurelia, a Sarzana. L’ultima volta che l’ho vista, si parla di diciassette anni fa, è stato passando da quella stramaledetta strada. Ero con degli amici, stavamo andando a rimorchiare in Versilia, e lei era là, sulla sua sedia di plastica bianca, con un mozzicone in bocca, mezzo seno di fuori. «Guarda quella troia, ma chi ci andrebbe mai con quella!»…magra… «Se mi date 50000 lire ci vado io»…deperita… «Ma lascia stare Andrea, chissà cosa ti prendi!»…divorata… come fosse stata esposta per una notte, nuda, coperta da brandelli di carne rancida in mezzo a un branco di cani… mentre stringeva un laccio al braccio stava litigando con quello credo che fosse il suo pappone. è stata l’ultima volta che l’ho vista. «Andiamo ragazzi, non mi va di scherzare».
Tante altre volte sono passato da quella strada e quella sedia, da quella notte in poi, è sempre stata vuota. «Ma cos’hai Luca, si fa per scherzare, mica diciamo sul serio, con quella nemmeno da morto»
Prima una crepa sullo schienale, era estate e c’era profumo di pino; a ottobre, una buca sulla seduta mentre l’aria traboccava di umido e foglie in decomposizione; a dicembre il ghiaccio della mattina aveva disintegrato il bracciolo destro mentre il naso pizzicava per il freddo invernale.
In primavera mentre le narici si riempivano del delicato profumo dei glicini la sedia era completamente distrutta, probabilmente fu il divertimento di qualche stupidotto di turno, così come “mia” madre fu il divertimento di qualche stupido che la portò lentamente all’usura e alla rottura.
Ricordo il giorno in cui mio padre la cacciò di casa.
Per anni si era svegliata tardi la mattina: prendeva un caffè e tornava a letto lamentando forti dolori a tutto il corpo e non mancando mai di affermare quanto la vita fosse stata ingiusta nei suoi confronti «sono giovane, non posso avere un figlio, ho tanto da vivere ancora, tanto da vedere, tanto da conoscere», si rialzava solo per l’ora di pranzo quando, da buona madre, metteva in tavola una scatoletta di carne e di legumi in scatola. La dieta poteva variare dai fagioli borlotti ai cannellini bianchi; nel migliore dei casi c’erano i ceci o il mais. Una volta terminato il pranzo lasciava tutto sul tavolo, la tovaglia veniva cambiata sì e no due volte al mese e i piatti rimanevano fissi sul tavolo finché mio padre non tornava a casa e li lavava.
Il pomeriggio lo passava sul divano davanti alla televisione oppure a letto.
Negli ultimi mesi, quelli prima di essere cacciata da casa, aveva iniziato a passare fuori casa la maggior parte del tempo.
Rincasava molto tardi completamente ubriaca; la mattina la trovavo in bagno in condizioni umilianti, il più delle volte nuda e ricoperta dal proprio vomito. Ciononostante, mia madre non aveva alcun odore, come se fosse lì ma in realtà fosse solo una figura senza sostanza, solo forma.
Quella mattina mio padre, tornato dopo due settimane di assenza per un’esercitazione, non era di buon umore. Dovette farsi largo tra un gruppetto di vecchietti che avevano deciso di fare comunella proprio davanti al cancello di casa, signori alquanto conosciuti ai giovani del paese: Mario, Ugo, Antonio e Roberto, simpatici personaggi che di notte davano la caccia alle coppiette per seguirne i movimenti e magari guadagnarsi un po’ di appagamento, e di giorno invece inseguivano le ragazze per le vie o sul fiume nascondendosi e poi mostrando loro i propri attributi.
Si fece spazio tra questi stinchi di santo e trovò la porta di casa aperta, mia madre sdraiata all’ingresso con un vestitino logoro e sudicio, il mozzicone di sigaretta bruciato ancora in bocca e i capelli arsi fino alla cute; la veste alzata fin sopra i fianchi e le mutande abbassate a mezza gamba, dormiva, in una posizione innaturale, un braccio dietro la testa e l’altro dietro la schiena, le gambe abbandonate ai lati del corpo. Si era addormentata così, nemmeno il tempo di chiudere la porta.
I suoi capelli bruciati non facevano odore, mia madre non aveva alcun odore. Era eterea. Un’esistenza eterea, l’unico segno del suo passaggio sulla terra vi sta parlando, per il resto non credo che nessuno abbia mai sentito la sua necessità e mai sentirà la sua mancanza.
Fui risvegliato da parole miste a urla. «Ma che fai!?»aprii gli occhi, li richiusi e mi girai dall’altra parte «Ma dove stiamo andando a finire» la conversazione si faceva interessante e decisi di non ignorarla«Non si può più nemmeno fare due chiacchere per strada» mi alzai e andai alla finestra «Va bon, andiamo vai. Qui non tira aria buona!» Scostai le veneziane e vidi quattro figure familiari allontanarsi per la strada. Li riconobbi subito; del resto io eil mio gruppetto di amici a quei quattro pervertiti ne abbiamo combinate di tutti i colori.
Lasciai la finestra e andai verso l’ingresso. Immaginavo che fosse tornato mio padre, sapevo che sarebbe tornato proprio quel giorno e così non mi stupii del trambusto di prima mattina: è un gran caciarone, e sicuramente dopo due settimane di assenza ricevere il bentornato da quattro pervertiti davanti casa non era stata una cosa a lui gradita. In ogni caso, percorsi il corridoio su cui si affaccia la mia camera. Sulla destra, la camera in cui dormiva mia madre era aperta e perfettamente in ordine, poco dopo sulla sinistra la cucina, e davanti alla cucina il salotto con divano e televisione, dietro di me il bagno e di fronte l’ingresso, nascosto da una tenda per evitare a sole e polvere di invadere la casa quando il caldo estivo ci obbligava a tenere la porta aperta. Scostai la tenda e trovai mio padre nell’atto di scaricare il corpo apparentemente privo di vita di mia madre, che solo dopo cinque minuti scoprii essere soltanto priva di sensi. Mio padre prese una valigia, la riempì con i pochi vestiti di mia madre e la gettò a terra, accanto a quel corpo ormai quasi del tutto denudato. Chiuse la porta a chiave, serrò tutte le finestre e mi disse «Luca, per due giorni non uscirai di casa». Non chiedeva mai, lui comandava, non dava mai la possibilità di rispondere, non lasciava niente al dubbio, ogni sua frase era una sentenza. Due giorni in casa, così ho vissuto l’abbandono della figura di mia madre, impalpabile e inodore figura di donna.
Su mio padre non c’è molto da dire. Lo conosco poco. Era un militare, colonnello mi disse una volta, ma non so molto altro: era un tipo schivo e silenzioso, spesso assente per esercitazioni e missioni. Ho sempre sospettato che avesse una seconda famiglia da qualche parte nel mondo: ogni volta che tornava era sempre più distaccato e sempre più desideroso di ripartire. Profumava di dopobarba fresco con un punto di amaro sul fondo. Nonostante la sua assenza, ero felice quando tornava: perlomeno cambiavamo la tovaglia e usavamo piatti puliti.
Dopo quei due giorni mio padre mi lasciò un portafoglio pieno di bigliettoni da 100.000 lire e un foglio con scritto un numero di telefono, , dicendomi: «Chiamami a questo numero se ritorna la pazza».Le prime quattro cifre del numero erano 0055, e con qualche ricerca scoprii che si trattava del prefisso del Brasile: là aveva la sua famiglia, quella che io non ero stato capace di essere.
Giurai che non l’avrei mai chiamato.
Era settembre quel giorno e l’aria sapeva di resina e di sale.