Riflessioni senza tempo

Se posso dire di aver imparato qualcosa dalla mia vita è che è necessario saper aspettare… basta non distrarsi nel frattempo. Sono stato una vita intera ad aspettare e tutto quello che ho fatto nel frattempo è stato riempire il vuoto creato dall’attesa di ogni ben di Dio: divertimenti, donne, esperienze; tutto quello che mi passava per la testa era giusto per passare il tempo.

 

Alla fine ho veramente vissuto aspettandomi sempre una svolta, sperandola. Sono stato seduto sulla comoda poltroncina del cinema della mia vita, mangiando pop-corn di fronte alle innumerevoli pubblicità locali, gustando i trailer delle altre vite, bevendo coca cola e smorzando rutti mentre aspettavo che il mio film cominciasse. Ho visto la pubblicità dell’intimo femminile con tutte quelle curve arrotondate, mi sono tuffato nel bordello della perdizione guardando il trailer di vite che non mi appartenevano, ho sognato la gloria con la pubblicità progresso per l’arruolamento nell’esercito, mi è quasi sembrato di vivere realmente quando ho avuto la mia prima missione per poi accorgermi che stavo solo guardando un reality. Ciucciando acqua e zucchero con la cannuccia, da quella che realmente è una fonte inestinguibile di dolce e inebriante succo che appaga, mangiando mais scoppiato e salato che sembra dare un gusto a tutto quello che tocca, perfino alle mie stesse dita, sono stato in attesa per tutto questo tempo che il mio film iniziasse. Tutte quelle distrazioni hanno fatto sì che il mio tempo passasse rapido, mi hanno meschinamente intrattenuto facendomi credere in principio che l’attesa potesse essere divertente come la vita stessa; poi mi hanno ingannato inculcandomi l’idea che l’attesa fosse essa stessa la vita, e, infine, mi hanno fatto dimenticare quale fosse il gusto della vita. Ho vissuto tutti questi anni come se fossi entrato in quel cinema solo per vedere le pubblicità e i trailer, la comodità della poltroncina e la gustosità delle bevande e delle vivande stracariche di gusto complici in questo complotto di annichilimento.

 

Nella mia attuale condizione di sospensione, in quest’attimo eterno che accomuna tutti i vissuti e tutti i viventi le cose sono molto più chiare e la paura che in principio derivava dall’idea di alzare le chiappe da quella poltroncina e uscire dalla sala si è tramutata in volontà di alzarsi e vedere con i propri occhi la luce inestinguibile del sole.

 

Ci vuole coraggio perché uscire al sole vuol dire uscire allo scoperto, vuol dire essere un mago nudo a dover far apparire una colomba da una mano chiusa a pugno; vuol dire non poter nascondere le cose di cui ti vergogni all’ombra della seduta davanti alla tua, non puoi toglierti la gomma da masticare e attaccarla sotto la tua poltrona. Sei alla luce, sei svelato, quello che hai nel cassetto chiuso dentro di te scalcia per uscire, e non importa quanto sia imbarazzante o impresentabile, uscirà allo scoperto e dovrai farci i conti.

 

Molto spesso viviamo come se non dovessimo mai morire, come se l’eventualità che una macchina perda il controllo e t’investa, o che cada qualcosa dal poggio sopra la tua testa, o che il tuo cuore smetta improvvisamente di battere, o ti esploda una vena nel cervello, o che impazzisca il tuo vicino con la pistola, o che semplicemente sia giunta la tua ora, non esistesse. Quasi sempre conosciamo qual è la cosa giusta da fare, sappiamo come è giusto salutare la propria moglie, come dire buongiorno alle persone che incontri, come sorridere a chi incroci per la via, andare a trovare i tuoi genitori, come accogliere chi ha bisogno, non negare la felicità a chi la sta cercando, non parlare male di chi non è presente, non tappare la bocca a chi vuole aprire il suo cuore con te, eppure, nonostante lo sappiamo, rimandiamo quel momento a un domani. In questo siamo bravissimi: a rimandare. Rimandiamo le scuse, rimandiamo i perdoni, rimandiamo gli oneri, gli appuntamenti, rimandiamo ogni cosa che ci costa sacrificio e sforzo di volontà confidando in un domani che non arriva mai. Perché il domani tra ventiquattro ore sarà l’oggi e l’arte del rimandare si affinerà di giorno in giorno, inventerai scuse sempre più affinate, più credibili: “Sto attraversando un periodo così stressante che non posso ascoltare anche i problemi di Francesca, ho già i miei, non le sarei di aiuto, lo faccio per lei”, “Stasera, quando tornerò a casa saluterò Giulia baciandola con un po’ più di tenerezza, ora no, non mi è ancora passata la rabbia che mi ha fatto montare ieri sera e non vorrei che pensasse che me lo sono dimenticato, lo faccio per noi”, “Perché devo andare a trovare mia madre oggi? Sono uscito ora da lavoro e devo farne ancora mille, poi sicuramente starà guardando il suo telefilm preferito e non la voglio disturbare… Lo faccio per lei.”

 

Immaginati adesso di avere un milione di cose in sospeso, migliaia di appuntamenti rimandati, di “ti voglio bene” non detti, di “scusami ti prego” non pronunciati, di scuse non accettate, di persone da rivedere; immaginati di voler finalmente rimettere tutto a posto nella tua vita. Quel domani è finalmente arrivato, o meglio, visto che il domani non arriva mai, facciamo che oggi sia il giorno in cui fare le cose giuste. Immagina di voler partire la mattina con una gigantesca bottiglia di disinfettante, un mega rotolo di cerotti, una super scatola di garze e sacchettate di cotone idrofilo per curare e prenderti finalmente cura delle ferite che hai lasciato alle tue spalle… immaginati che metti il piede fuori di casa con questo benevolo intento e dal tetto sopra la tua testa cade una tegola fracassandoti il cranio. Può la sola volontà espressa ma non realizzata di sistemare le cose essere abbastanza per redimere e giustificare tutti gli anni di rimandi? E soprattutto, se lo può essere per te, cioè se il solo fatto di volerti scusare e voler rimediare ai tuoi errori ti redime dal fatto di non averlo voluto fare prima, come la mettiamo con le persone che sono state offese dal tuo comportamento? Basterà la tua decisione a farli sentire in pace con te?

 

Le persone che adesso soffrono per colpa mia mi perdoneranno mai?

 

Questa domanda mi tormenta e da sola è un atroce contrappasso dantesco. E pensare che basterebbe una sola linea rossa verticale sul suo petto per darmi la pace che forse mi merito.

 

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